E ci rappresenta la realtà in modo differente. Ma è ancora così nell’era di Instagram? Oppure i fotografi sono inguaribili romantici che pensano di brandire oggetti magici?
Da quando fotografo con macchine digitali, metà dei miei obiettivi provengono dal mondo della pellicola. Solo negli ultimi mesi, con il passaggio a Fuji, le qualità delle ottiche è tale da evitare rimpianti, quanto meno a livello di nitidezza e risolvenza. Occorre anche dire una cosa: le lenti di una casa per i proprio modelli di fotocamera sono studiate e testate ad hoc, quindi viene da sé che le performance siano migliori, in particolare su formato ridotto aps-c.
Perché utilizzare ottiche manuali e datate? Perché le ottiche “vintage” (pensate per formato 24×36) hanno un carattere che molte ottiche moderne per il digitale non hanno. Una lente può distinguersi per varie proprietà (nitidezza, controllo delle aberrazioni cromatiche, della distorsione…), ma prima ancora, ne esiste un’altra.
Ogni lente filtra la nostra visione del mondo.
Non mi riferisco solo alla lunghezza focale e all’angolo di campo, per cui, decidendo di utilizzare un grandangolo piuttosto che un tele, restituiamo la realtà da un punto di vista differente. E nemmeno alla scelta legata all’apertura o alla profondità di campo. Se già le fotocamere variano la resa finale da un produttore a un altro, per caratteristiche del sensore e del software interno che trasforma la realtà percepita in una serie di impulsi elettrici e di bit (quello che un tempo facevano l’alogenuro di argento e la pellicola), ogni obiettivo è un prodotto di uno straordinario lavoro che riunisce competenze e discipline diverse: matematica, ottica, chimica…
Un esempio. All’inizio degli anni Settanta la U.S. Navy commissionò alla Leitz Canada la progettazione di una serie di teleobiettivi che superassero i limiti allora raggiunti per scopi di sorveglianza militare. I requisiti erano: potere risolvente e nitidezza ineguagliata a tutta apertura dal centro ai bordi all’infinito, correzione apocromatica estesa fino all’infrarosso, ottima portabilità per uso a mano libera. Nel 1975 la commercializzazione dell’Apo Telyt-R 180mm f/3.4 fu estesa da Leitz anche al mercato civile: la realizzazione di Walter Mandler, capo del laboratorio di Midland nell’Ontario, faceva già parte della leggenda. Alcuni sostenevano che Mandler avesse raggiunto un traguardo che era considerato impossibile, grazie ai suoi studi sui vetri alla Fluorite.
Altri che avesse creato su carta lo schema perfetto (niente super computer ai tempi!) e, solo successivamente a calcolo finito, avrebbe ricavato i parametri ottici dei vetri necessari. Altri, infine, ritengono ancora oggi che un vetro che permettesse simili performance non esisteva, e quindi il progetto, perfetto su carta, doveva attendere che i chimici della vetreria di Wetzlar si trasformassero in alchimisti medievali.
Ogni obiettivo ha un carattere e vede (e quindi rappresenta per noi) la realtà in modo differente.
Per esempio, ma non solo, la transizione dalla zona a fuoco a quelle fuori fuoco è uno degli aspetti più importanti da valutare: le lenti attuali tendono a “staccare” i piani in modo molto netto, con il soggetto a fuoco ben definito rispetto all’ambiente circostante. In altri il passaggio tonale è progressivo e più delicato.
Gli obiettivi russi, per esempio, generalmente disponibili con attacco a vite m42, non brillano per nitidezza e contrasto (con alcune eccezioni, per esempio i Tair), e soprattutto soffrono il flare in controluce, ma regalano sfocati unici, poetici, così da risultare ottiche economiche ma perfette per la ritrattistica molto più di certi zoom moderni che costano quattro volte tanto.
In questa pagina ho inserito alcuni scatti, per lo più floreali, certo non esaltanti ma utili a comprendere le differenze proprio a livello di sfocato a tutta apertura, aspetto dove magari risulta più evidente all’occhio la diversa “anima”. Se volete provare anche voi, prendete un soggetto e scattate una serie di ritratti con diversi obiettivi. Ve ne accorgerete subito.
Se prendessimo la classica focale da ritratto, 80-90mm, anche e sopratutto a f/1.4, l’occhio allenato individuerebbe immediatamente le peculiarità di una casa o di un’ottica rispetto a un’altra, o addirittura di una versione di una stessa ottica, come si è evoluta nel tempo (mi viene in mente, per fare un esempio, il leica summicron 90: tridimensionale, e dotato di poco contrasto nelle sue prime versioni di 50 anni fa rispetto alle recenti produzioni super risolventi e nitide che però hanno perduto, insieme ai difetti dell’epoca, anche un poco di “magia”).
Leica o Zeiss è l’eterna battaglia. Macro contrasto vs micro contrasto, toni freddi vs toni più caldi e saturi, pennellate dei chiaroscuri vs scultorea tridimensionalità. Qui il brand non è marca che ha fatto la storia della fotografia, ma anzitutto scuola di pensiero, “bottega d’arte”.
Il carattere è un’anima dotata di poteri particolari.
I fabbri dei miti e delle leggende forgiavano oggetti magici dotati di poteri particolari, ciascuno con delle proprietà specifiche: il mantello che rende invisibili, lo scudo indistruttibile, la spada fiammeggiante, la bacchetta che trasforma una rana in un principe. Ognuno di questi oggetti, veniva forgiato partendo da materiali o ingredienti speciali e come risultato, aveva una sua anima o addirittura una Volontà, addirittura in grado di controllare la mente e il corpo del suo utilizzatore.
Se brandire la spada di Sigfrid non è lo stesso che impugnare un coltello da cucina, così dobbiamo considerare che ogni strumento che utilizziamo per guardare (e modificare) la realtà ha un Potere particolare: trasforma il modo con cui ci rapportiamo al reale. E trasforma noi stessi. Gleipnir, la catena che Odino commissionò ai fabbri nani per incatenare Fenrir il Lupo, era liscia e soffice come seta. Fu forgiata con rumore di passo di gatto, barba di donna, radici di montagna, tendini di orso, saliva di uccello e respiro di pesce.
Negli ultimi due anni in particolare il progresso a livello hardware e software dell’industria fotografica digitale ha ridimensionato questa tesi. Erwin Puts – esperto uomo Leica – qualche giorno fa ha scritto che “the truth is that the post-processing software, the digital signal processing, is now the main factor that determines the quality of the image. It is no longer the lens itself “.
Se è vero che da una parte brand come Sigma Olympus e Fuji hanno recentemente sfornato prodotti di altissimo livello, tali da raggiungere quasi il top standard Leica/Zeiss, è oggettivo che nella qualità della resa finale dell’immagine un ruolo fondamentale lo gioca il sotware: interno alla fotocamera e soprattutto quello di democisaizzazione e di post produzione. Discorso che i possessori del sensore X-Trans conoscono fin troppo bene, abituati a utilizzare lo standard di mercato Adobe, e scoprire che utilizzando programmi meno noti (Iridient Developer, Photo Ninja, Capture One, Aperture), riescono a dare ai propri scatti una croccantezza e una nitidezza non solo superiori, ma avvicinabili a quelle delle migliori macchine full frame.
Anche nella fotografia l’asse si è dunque spostato in modo netto dall’hardware al software?
Tra pochi anni la “Fotografia”, quella che oggi è fotografia di massa con tutto quanto ci sta dentro (Instagram, selfies, smartphones, facebook e via cantando) diventerà definitivamente sinonimo di “Digital imaging”?
Direi di attendere il 2015, in quanto credo sarà un anno abbastanza rivoluzionario dal punto di vista della produzione dei nuovi sensori, e quindi degli strumenti fotografici che avremo a disposizione. Sicuramente la innovazione tecnologica permetterà, ad amatori e professionisti, maggior possibilità di scelta, creatività e qualità. Ma non dobbiamo mai dimenticare chi siamo: la buona fotografia si eleva anzitutto per il “contenuto”.
E’ innegabile però che anche noi fotografi ci soffermiamo troppo sul “con che cosa l’hai scattata” e sul “quanta maschera di contrasto hai utilizzato” spostando l’attenzione dal soggetto e dall’idea creativa (che “fanno” la foto) al mezzo (con cui si “produce” l’immagine). Insomma la foto non è il file.
Sono stati versati fiumi di sudore e di inchiostro sull’oggettività della mimesi fotografica nel contesto delle discipline artistiche. Non sta certo a me giudicare l’importanza assegnata, nella storica querelle, alle caratteristiche fisiche del mezzo fotografico che filtra e rappresenta la realtà a un livello estraneo e indipendente dalla nostra coscienza.
Alla soggettività e all’interpretazione dell’autore si aggiunge dunque la peculiare struttura dello strumento? Premesso, come abbiamo appena detto, che la foto è e resta una interpretazione creativa, quando andiamo a selezionare un obiettivo, una fotocamera o un brand (nel senso della “tradizione” di cui sopra), dobbiamo essere consapevoli che questa decisione può modificare sensibilmente il nostro risultato finale, la nostra mimesi della realtà. Quando scegliamo il nostro fedele strumento fotografico, non lo stiamo semplicemente portando con noi: lo stiamo indossando.