“Calamus” secondo classificato al Premio Cerruti Marianni

Il mio racconto fantastico “Calamus” è arrivato secondo al Premio Cerruti Marianni, concorso letterario nazionale indetto dal Comune e dalla Biblioteca di Borgo Ticino. Di seguito il testo. Il tema, l’umanizzazione degli oggetti che condividono il nostro quotidiano, mi è semprepiaciuto, e mi prometto di svilupparlo prossimamente, partendo dai flash che ho lanciato in questo breve racconto, in qualcosa di più ampio respiro.

Calamus

“Io non sono di nessuna epoca e di nessun luogo; al di fuori del tempo e dello spazio, il mio essere spirituale vive la sua eterna esistenza e se mi immergo nel mio pensiero rifacendo il corso degli anni, se proietto il mio spirito verso un modo di vivere lontano da colui che voi percepite, io divento colui che desidero.”

Imbarcai i passeggeri e diedi alla navicella una spinta leggera. Il guscio ondeggiò un poco prima di abbandonarsi alla corrente, e i due petali bianchi scivolarono lenti sulle acque scure. Il canto della fontana attutiva la festa sul fondo della piazza. Sulle tavole si contavano i bicchieri di vino, le coppie si scambiavano l’ultimo ballo. Lei mi prese la mano, socchiuse gli occhi per un istante che dura ancora adesso, ogni volta che mi torna in mente. L’amore è fede, e la fede è una chiamata. In quel
battito di ciglia, semplice e segreto, ho riposto tutto il simbolo della coscienza di farsi destino.
Salimmo, in fretta ma non troppo, le vie buie del borgo, con l’odore della pietra che risaliva da invisibili anfratti. Assaporavamo gli angoli, i saliscendi e le antiche volte sotto le quali volavamo come ombre tenui e ridacchianti. Di sotto il paesello fremeva di gioia. I colori delle luci perdevano nitidezza e chiarore, non si distingueva più il vociare delle ragazze o le grida dei fanciulli.
Le indicai la Luna, Madre sacra e profana, sopra le teste argentate dei faggi. Dicono che chi ama vede i suoi contorni sfumati.
Lei mi avvicinò il capo, sentii il profumo dei suoi capelli e inspirai in tutto il corpo, fino al ventre, una primavera di viole. Risalimmo il ponte, quello costruito chissà quanti secoli fa per vincere il torrente. L’amore, dicono i poeti, non è forse passaggio e iniziazione? Per me era il primo, e allora credevo l’unico. Ma, del resto, capita a tutti così. Si fermò, esausta dalla fatica o dal desiderio, proprio a metà, dove la salita e ladiscesa si abbracciano in un punto. Freddo e caldo, argento nei suoi occhi verdi, tenebra intorno a noi. Salì allora – o forse dovrei dire che c’era già, che c’era sempre stata, ma le mie orecchie erano chiuse dal torrente – l’allegra industria dei grilli, appesi alle ginestre selvatiche all’ombra dei fossi.
Mi scostò i capelli dietro un orecchio e mi sussurrò qualcosa, con voce umida e calda, sicura, come lo scirocco passa la mano sul grano, giallo e maturo, in cima alle colline di Sicilia. Ascoltai il vento, non cosa portava. Non lo seppi mai.

In verità, tutto ciò, io non l’ho mai provato.
Io sono nato per vivere, non per essere felice. E anche vivere, è vivere solo di riflesso, in un angolo eccitato o trasognante della mia mente infinita, reclusa in questa cella asfissiante. Appiccicata addosso come un vestito bagnato, e non la posso vedere. Il corpo è la prigione dell’anima? Della vita restano le cose, non i pensieri. Dietro di me vedo solo l’anima che ho gettato in ogni respiro, in ogni cosa che ho fatto. Conosco il bene e il male, ma non li ho vissuti.

Il rimpianto è non aver mai sentito il canto delle cicale nelle sere d’estate, non aver mai visto i colori dell’autunno, le linee nette delle cime innevate quando il tempo si ferma tra il tramonto e la notte. Vivo di immagini, sogni, ricordi altrui che ho preso a prestito. Come posso disquisire e ragionare, se non ho mai visto, sentito, toccato? Di che Sostanza parlano i filosofi, se non hanno mai sperimentato un giorno, uno solo, privo della gioia, dell’umanità dei sensi?

Mi sono sempre chiesto: cosa c’è di veramente bello nel mondo? Nessuno ha mai fatto un elenco. Quando lo faranno sarà perché quelle cose non saranno più. Allora vivranno di somiglianze, associazioni, magari rimpianti. Come si può pretendere di conoscere le cose, sostituendole con teorie, filosofie, enciclopedie – non parliamo delle statistiche! – e tutto il ciarpame che l’umanità ha prodotto in questi disgraziati secoli? La matematica, la geometria, è autentica poesia. Ma la vita, quella oltre il velo… che cos’è? Chi scrive sulla riva al mare ha compreso tutto.

Quanto invidio chi scrive musica! Sente il respiro del Dio. Danzare su un pentagramma ha una dimensione verticale libera, non costretta: stai parlando con il Grande, stai usando la Sua voce per spiegare il mondo. Lì davvero il suono, il grafo, è sema, sostanza, nome di Dio in tutte le cose. Il ritmo, la misura, il tempo giusto, il torrente sotto il ponte, le labbra dischiuse, il sapore della lingua che penetra veloce e smaniosa, senza argini. Senza pensieri.

Rugiada. Ho sempre desiderato scoprire la dolcezza e l’ansia del sesso. Non ho mai goduto di questa gioia, o dannazione, ma l’immagino come una goccia di rugiada. Che pesa sulla punta di una foglia e poi scivola giù, dove liberarsi è librarsi per un istante divino e inafferrabile. E poi si sprofonda giù, forse più giù di prima, perché si prende coscienza della noia di stare al mondo.

Se mi permettete una battuta, ci ho messo l’anima in tutto ciò che ho fatto. Quando si fa una cosa, bisogna farla bene, perché diventa un pezzo di sé. Il senso, il significato, lo si scopre dopo, alla fine del viaggio. Ma ogni pezzettino, ogni puntino che mettiamo dietro all’altro va messo nel modo giusto al tempo giusto. Solo così, quando vediamo noi stessi realizzati dal di fuori, significa darsi agli altri,
mettersi al servizio, uscire dalla corrente del tempo. La coscienza è una tela. Trama e ordito. Su e giù. Orizzontale e verticale.Maschile e femminile. Ogni passaggio è imparare qualcosa di più di sé. Si può essere orgogliosi o meno, si può essere e basta. Dare l’anima implica movimento, come respirare è vivere e morire. Ma intanto gli uomini scordano le cose belle per correr dietro alla morte.

Amici cari, devo lasciarvi. Sento che il tempo è giunto. La voce si fa un sussurro, le membra le sento lontane. Sono arrivato all’ultima goccia, sono finito. Come un ubriacone attaccato alla bottiglia, si è giunti al fondo, la storia è stata scritta. Sono le ultime lettere, poi chissà quale ponte attraverserò. L’immortalità sta nelle storie in cui si è versata una parte di sé.
Ecco, l’ho scritto. Io sono.

Da una nota rinvenuta negli archivi della Chiesa di San Leo.

“Dicono che i negromanti, e chi pratica la magia nera, non solo riescano a far parlare i morti o a comunicare con l’Aldilà, ma anche a dar vita agli instrumenti. Alcuni dei beni a loro più cari sopravvivono nei secoli fin dall’epoca Egiziaca. In modo assolutamente diabolico, apprendono i segreti dei loro padroni e li mettono in pratica su se stessi, per diventare umani o aspirare all’immortalità. Nel nostro ultimo colloquio, l’eretico G. Balsamo – nato infelice, vissuto ancor più infelicemente, morto infelicissimo il giorno 26 agosto ad ore 3 dopo la mezzanotte – cercò, con mente dura et impenitente, di trarmi nella falsa fede che alcuni oggetti possono prendere possesso dell’anima del mago o di qualche altra persona o, per inverso, il mago trasferire la propria nell’oggetto”.

Anno Domini 1795, giorno 28 del mese di agosto
Don Luigi Marini, Arciprete