Al di là del bene e del male: il senso del limite

Solitamente non amo parlare di cronaca, specie se nera o rosa. Quanto è accaduto nella civile e lombardissima Erba, però, non credo possa spegnersi con il tempo, come di solito accade (caso Franzoni, a parte).
Se esiste il Male (quello con la M maiuscola) è sicuramente quello freddo e razionale, rigido e calcolatore. E’ la vendetta di Medea sui propri figli, il gas di Auschwitz, il massacro di Beslan.
Ma ho troppo rispetto per l’Essere per considerarlo un pendolo che oscilla schizofrenetico o ubriaco tra due opposti morali assoluti.
Morale religiosa o laica che sia, bisogna evitare che l’additare i responsabili come “mostri” ci faccia riposare sonni tranquilli nella nostra dorata casta di “persone normali”, e quindi, sentimenti di odio o pietà a parte, far pensare che quell’episodio non ci riguardi.
Il problema non è che potevano, o possono, essere i nostri vicini a intrufolarsi in casa e scannarci come maiali.
Il problema è anzitutto levarsi dalla testa l’abitudine da provincetta d’appiccicare etichette e giudizi alle persone in base a quelle tre, quattro categorie sociali con cui dividiamo il mondo, a mo’ di squadra e righello, o dell’ultimo reality.
In secondo luogo, il “mostro” ci riguarda perché riposa silenzioso (a volte russa, o agita la coda) anche nei recessi del nostro profondo di bravi cristiani e “persone perbene”.
Mi è tornata alla memoria la tripartizione che i Greci facevano del mondo fin dai loro miti più antichi. Esistono tre sfere o mondi nella realtà . Quello più alto (in senso morale e spaziale) appartiene agli Dei, che abitano la bronzea dimora del Cielo, cui il dolore, la morte e la malattia non tocca la fronte imperturbabile se non quando s’interessano delle vicende terrene dei mortali.
Il mondo più basso è quello animale, primevo, selvaggio e istintivo. Per questo non ha senso parlare di morale, di storia, o di coscienza, in quanto le bestie non conoscono linguaggio verbale. Sallustio diceva che gli animali per natura tengono il capo chino verso terra, e non l’alzano verso i celesti.
A metà tra questi due mondi si collocano gli uomini, che ondeggiano tra un ritorno alle proprie origini ferine e istintuali, e la ricerca della ragione, della serenità e della gloria che li renda immortali almeno nella memoria dei posteri. L’uomo ogni giorno cammina in bilico su questo filo esile e difficile, cercando di elevarsi dalla propria condizione originale e così facile a ricadere nella bestialità che uccide il suo essere “animale politico”.
Possiamo sprecarci ancora una volta sul Bene e sul Male, al di là delle motivazioni psicopatologiche di una donna che sgozza un bambino, perché sente nelle sue urla la condanna a essere una madre mancata, o l’egoismo e la triste solitudine di una coppia che vede il disordine altrui come la negazione della propria ricerca ossessiva dell’ordine e della pulizia.
Oppure possiamo provare a rivedere le categorie alla base di questa società così incapace di interrogare se stessa? Se ogni singolo atto, o strumento, tende alla rottura, come è possibile applicare costantemente quella critica, quella sana capacità di interrogare ““ se stessi e ciò che ci circonda ““ che può nascere solo dalla consapevolezza del (proprio) limite?
Solo grazie al limite della siepe Leopardi avrebbe potuto intuire con un brivido che “per poco il cuor non si spaura” gli immensi spazi dell’infinito. Nel mondo antico tutto era finito, mentre la marca distintiva della modernità è l’in-finito. Infinito che è anche in-finitudine: incompiutezza, angoscia del vivere, prima che esplosione della propria volontà di potenza. Questo i Greci l’avevano ben compreso, tanto da associare all’infinito un concetto negativo. Dai pitagorici in avanti per il fatto cge, andando al di là della ragione umana, non poteva essere compreso.
Ma questa posizione era figlia di una paura cosmica, ancestrale, di cui il sentimento tragico è stata la insuperata interpretazione nella storia umana. Tenendo conto che i Greci non dovevano rendere conto a un Dio unico dispensatore di bene o punizioni a seconda della condotta individuale e collettiva. Non c’è colpa né cammino verso un futuro predestinato. E’ l’alba dell’autocoscienza.
Nella tragedia si oppongono senso del limite e volontà di potenza, il desiderio di essere artefici del proprio destino. Il tentativo di affermarsi al di fuori dei limiti dello statuto di uomo, imposti dalla volontà imperscrutabile degli Dei o dal consorzio sociale, si chiama hybris, la prevaricazione che è sempre cosciente, mai casuale.
Chi supera il limite, nel momento stesso in cui lo compie, è cosciente che sarà perseguitato e sconfitto. Eppure non può fare altrimenti, se vuole corrispondere il proprio desiderio (cioè “mancanza”) di essere uomo imperfetto. Volontà e necessità si fondono, dove accettazione della punizione e della colpa è identica all’accettazione del limite che si è superato. Il rispetto della legalità è, all’atto originario, il riconoscimento del proprio diritto e dovere di limite che è la premessa del riconoscimento dell’Altro.
Ma perché esiste il limite? Per alcuni perché “gli Dei sono invidiosi”. Per Eschilo e altri perché nel limite si compie la Giustizia che è l’equilibrio che fragilmente tiene unito insieme tutto il cosmo (“ordine”) contro il Caos. Per chi, come Sofocle, Euripide ed altri, non riescono ad accettare che la necessità dell’ordine sia un bene e un fine ultimo per l’uomo, non resta che celebrare il dolore proprio della condizione umana come la marca della propria grandezza di fronte all’oscurità del dover-essere-al-mondo.
In questo dilemma senza esito, l’esempio sportivo può essere utile. Si deve imparare non solo ad accettare e superare il proprio limite, ma anche a saper perdere con onore, perché si vince non sull’avversario ma nel gioco. Non c’è sopraffazione sull’altro ma contesa onesta. E allora, se la Vita è il gioco, in cui per fede o per caso ci si ritrova da un giorno all’altro, si può e si deve cercare di vincere nella Vita senza sopraffare gli altri.
E lo stesso concetto si applica nel proprio rapporto con l’ambiente. Nell’antichità , ove tutto era sacro, il vivere individuale e collettivo non era indipendente dallo spazio in cui si abitava e che determinava gli atteggiamenti stessi dell’essere umano. In questo senso l’ambiente diventa l’unico luogo e senso in cui si può manifestare il proprio essere più autentico. L’economia coincide con l’ecologia nel significato più pieno. Spesso ci si dimentica della comune radice: oikos, casa.
Il senso del limite, il vivere secondo le leggi di natura significa – come bene sapevano i nostri padri, e non solo il pensiero orientale – porsi il problema di come non rovinare la trama della Vita che ci circonda, di come ridurre nel migliore dei modi l’impatto dovuto ai nostri consumi, ai nostri bisogni.
Il limite diventa misura, e l’uomo “misura di tutte le cose” assume un significato e una direzione ancora più pieni e positivi, in cui la volontà di potenza si traduce costantemente nella ricerca dell’equilibrio tra l’espansione di Sé e il rispetto dell’Altro, che può risolversi solo in un consapevole e reciproco riconoscimento di sé nell’Altro. La cancellazione del limite ci pone al di fuori del mondo, l’abbattimento dell’Altro, o del Nemico, ci pone al di là della nostra umanità .