Quanto è lunga la nostra libertà?

L’ho trovato là ad aspettarmi, come si aspetta qualsiasi novità anche la più brutta purché ti cambi la giornata, legato alla sua cuccia, a dieci metri dalla strada, a un metro da una ciotola vuota, a venti dal portone che deve custodire. Il suo mondo, il suo lavoro. O meglio, la sua vita, 24/24h, 7/7gg, 365/365gg. Immaginatevi nello stesso posto per tutta la vita, a fare la stessa cosa, a mangiare le stesse cose, senza nessuno. Altro che isole dei famosi!
Quando mi ha visto non mi ha neanche abbaiato. Ha tirato su gli occhi tristi e guardato con pietà . Per sé. Questa è coscienza. L’ho salutato, cercando di trasmettergli quello che trasmetto al mio Alan quando sono felice di vederlo. Non l’ho compatito, ho cercato di dargli allegria, non quella però un po’ ipocrita e di maniera che si dà agli anziani negli ospedali. Il problema è che te la giochi subito, la fiducia. Non hai tempo per recuperare con le parole. O si stabilisce il “link” empatico o sei fregato e non gli vai a genio. O sei l’ennesima noia o sei uno scocciatore. Magari un deficiente che non capisce e lui pensa “ma cosa vuole, che mi metta a fare il cane da guardia? fallo tu!”
Ci sono riuscito e mi si é mosso il cuore. Si é alzato, é andato a prendere la sua bottiglia di plastica vuota, e me l’ha portata invitandomi a giocare. Ho dimenticato perché ero là, l’appuntamento, la strada, le macchine, tutto e mi sono messo a giocare. Beh, giocare per modo di dire: due metri di catena sono una bella libertà .
Quando rimpiangiamo la nostra infanzia, tutti pensiamo al “gioco”. Non é forse perché l’essenza autentica (in senso severiniano) della Vita era proprio la libertà , l’identificazione con essa che il giocare ci dava? Nel giocare non eravamo forse davvero liberi, e incatenati al senso più puro e bello del vivere, beati e ignari da quella che poi avremmo chiamato “scissione” o biblicamente “peccato originale”?
CCosì dicean tra lor, quando Argo, il cane,
Ch’ivi giacea, del pazïente Ulisse
La testa ed ambo sollevò gli orecchi.
Nutrillo un giorno di sua man l’eroe,
Ma côrne, spinto dal suo fato a Troia,
Poco frutto poté. Bensì condurlo
Contro i lepri ed i cervi e le silvestri
Capre solea la gioventù robusta.
Negletto allor giacea nel molto fimo
Di muli e buoi sparso alle porte innanzi,
Finché i poderi a fecondar d’Ulisse,
Nel togliessero i servi. Ivi il buon cane,
Di turpi zecche pien, corcato stava.
Com’egli vide il suo signor più presso,
E benché tra que’ cenci, il riconobbe,
Squassò la coda festeggiando, ed ambe
Le orecchie, che drizzate avea da prima,
Cader lasciò: ma incontro al suo signore
Muover, siccome un dì, gli fu disdetto.
Ulisse, riguardatolo, s’asterse
Con man furtiva dalla guancia il pianto,
Celandosi da Eumèo, cui disse tosto:
“Eumèo, quale stupor! Nel fimo giace
Cotesto, che a me par cane sì bello.
Ma non so se del pari ei fu veloce,
O nulla valse, come quei da mensa,
Cui nutron per bellezza i lor padroni”.
E tu così gli rispondesti, Eumèo:
“Del mio re lungi morto è questo il cane.
Se tal fosse di corpo e d’atti, quale
Lasciollo, a Troia veleggiando, Ulisse,
Sì veloce a vederlo e sì gagliardo
Gran maraviglia ne trarresti: fiera
Non adocchiava, che del folto bosco
Gli fuggisse nel fondo, e la cui traccia
Perdesse mai. Or l’infortunio ei sente.
Perì d’Itaca lunge il suo padrone,
Nè più curan di lui le pigre ancelle;
Ché pochi dì stanno in cervello i servi,
Quando il padrone lor più non impera.
L’onniveggente di Saturno figlio
Mezza toglie ad un uom la sua virtude,
Come sopra gli giunga il dì servile”.
Ciò detto, il piè nel sontuoso albergo
Mise, e avvïossi drittamente ai proci;
Ed Argo, il fido can, poscia che visto
Ebbe dopo dieci anni e dieci Ulisse,
Gli occhi nel sonno della morte chiuse.
(Odissea, XVII – vv. 350-397 – trad. del Pindemonte)
Dopo vent’anni (irrealistico ovviamente, é un’iperbole di Omero) di assenza, il cane di Ulisse riconosce il padrone sotto le finte spoglie del mendicante, là dove non l’aveva neppure riconosciuto il figlio o il vecchio amico, e muore, per l’emozione e la gioia ritrovata.
E’ l’esempio più bello e sincero dell’amore del cane per l’uomo che sia mai stato cantato, e una delle pagine più belle che mi porto dentro fin da bambino (ovviamente non in questa traduzione aulica e senza sentimento).
Se vedete un cane alla catena, ricordatevi di Argo.
Anni fa, un gesuita che studiava Omero con me mi disse che, in fondo, rispetto a Dio siamo tutti come Argo. Quanto é lunga la nostra catena?